Intervistato dai francesi di Les Echos in un articolo pubblicato nella giornata di ieri Tim Cook, CEO di Apple, ha tenuto a precisare che l’azienda non intende emettere una propria criptovaluta; il CEO ne ha approfittato per strizzare l’occhio al governo francese, tra i maggiori detrattori internazionali delle criptovalute, affermando che:
“Penso davvero che la valuta debba rimanere nelle mani dello stato. Non mi sento a mio agio con l’idea che un ente privato possa creare una valuta moderna”
Ora, paradossalmente con questa affermazione Cook non si discosta poi tanto da quello che pensano molti bitcoiners (incluso chi scrive questo articolo), non è un caso che proprio alcuni membri di spicco della comunità siano stati tra i primi ad attaccare libra o qualunque altro progetto che abbia alle spalle una struttura anche solo lontanamente equiparabile a quella di un’azienda. C’è una profonda differenza tra una cripto decentralizzata come bitcoin e le monete centralizzate controllate da aziende (come XRP); inoltre la frase del CEO di Apple, contrariamente a quanto si possa credere, non esclude affatto la possibilità che l’azienda possa un giorno ad arrivare ad emettere un proprio token.
Apple non pensa ad una moneta virtuale
Tim Cook, con la sua intervista, ci offre l’opportunità di tornare su una questione abbastanza cruciale che riguarda l’incapacità da parte della comunità di elaborare definizioni unanimemente accettate da tutti. Vero è che parliamo di una tecnologia nuova, ma il fatto che in questi 11 anni la comunità non sia stata capace di dare vita a definizioni precise che consentano di fare un discorso di portata scientifica sulle implicazioni politiche delle monete crittografiche è una grave carenza. Come ho scritto in numerosi altri articoli, infatti, è stato un errore già solo chiamarle “criptovalute”, cosa che i giapponesi hanno così ben capito da aver qualche mese fa invitato la stampa ad abbandonare l’uso di questa parola in favore della locuzione “asset crittografici” recentemente introdotta con la nuova regolamentazione di cui il paese si è dotato. Inoltre Cook ha preso un grosso abbaglio nel momento in cui sostiene che la dimensione monetaria deve rimanere nelle mani dello stato, in realtà il nostro sistema è già disegnato perché non sia così; le banche centrali sono entità che, almeno su carta, dovrebbero essere autonome e indipendenti, che poi nei fatti non sia così dimostra solo l’incapacità delle istituzioni di regolamentare se stesse.
Quando l’autonomia delle banche centrali dai governi (cioè dallo stato) viene messa in discussione succedono veri e propri cataclismi, basti a dimostrare questo constatare gli effetti disastrosi che le pressioni di Trump sulla FED per un ulteriore taglio dei tassi (sistematicamente avvenuto qualche giorno fa) stanno avendo sui mercati internazionali. La tentazione, per i governi, di far fronte ai problemi di un paese aggirando la politica e ricorrendo sistematicamente all’uso della leva monetaria per guadagnarsi la rielezione è semplicemente troppo forte perché i governi possano auto-regolarsi, per questo le banche centrali, almeno sulla carta, sono entità autonome e indipendenti. Questo non vuol dire, ovviamente, che sia corretto permettere ad aziende multinazionali di arrivare a controllare esse stesse la politica monetaria, ma solo che occorre inserire nel sistema un terzo soggetto cosa che, sostanzialmente, è esattamente quello che ha fatto Satoshi inventando bitcoin. BTC non è una moneta privata nell’accezione comune del termine, certo, non è sotto il controllo di grandi istituzioni, ma non per questo è definibile come privata; non c’è niente di più pubblico di bitcoin, togliere la moneta dal controllo degli stati non significa certo metterla nelle mani delle aziende, non è questo che fa bitcoin e non è il motivo per cui è stato inventato.
Allo stesso modo sarebbe folle pensare che domani non esisterà più valuta FIAT, per il semplice fatto che gli stati continueranno a pretendere il pagamento delle tasse nella propria valuta nazionale; questo, però, a sua volta, non significa che sia naturale, e ancora meno legittima, l’egemonia del dollaro americano nel contesto internazionale. Il fatto che la moneta di riferimento per gli scambi internazionali sia il dollaro mette nelle mani degli USA un potere che non è ne tollerabile ne auspicabile che mantenga; il problema non si risolve adottando la moneta controllata da un altro stato, ma facendo in modo che la moneta di riferimento per il commercio internazionale sia decentralizzata. A questo serve, prima di ogni altra cosa, bitcoin. Vi è poi un’altra questione che tende spesso a scomparire nel dibattito pubblico su questa tecnologia ed è la differenza tra rete e moneta; entro certi termini è persino irrilevante che una grande azienda emetta una sua moneta, ciò che conta è che non controlli la rete. In pratica un’azienda può anche emettere un proprio token, questo avrà degli usi e degli scopi precisi, l’azienda potrà anche controllare la supply, ma non controlla la rete.
Un token non potrà mai essere utilizzato per regolare gli scambi internazionali; intendiamoci, un domani netflix (per fare un esempio) potrebbe anche emettere un proprio token e pretendere che questo venga utilizzato per pagare gli abbonamenti, si può persino credere che, un domani, un panificio, un mobilificio o una qualunque altra azienda possa decidere di accettare quel token come mezzo di pagamento dai propri clienti, ma è impensabile che a livello globale tutti gli scambi commerciali vengano regolati con un token. E’ invece pensabile che la moneta di riferimento sul mercato globale diventi per tutti bitcoin, ma anche qui poi sorge un dubbio: che cosa si starebbe usando realmente, la moneta (che nemmeno esiste fisicamente) o la rete? Quello che non mi pare sia stato compreso dalla stessa comunità è che bitcoin non esiste, esattamente come non esiste il personaggio di un film di animazione; ad esistere è la rete, non la moneta. Quelle che chiamiamo “transazioni” in realtà non sono veramente tali, sono solo numeri, in se non avrebbero alcun valore; quelle che chiamiamo “monete” non esistono nella realtà, non sono vere monete, tant’è vero che, come la stessa comunità dice spesso, nessuno ti obbliga a comprare un bitcoin intero, puoi comprare una frazione di bitcoin.
Se però bitcoin non esiste nella realtà, se è in realtà solo una stringa alfanumerica, la rete esiste, è concreta, è qualcosa che puoi toccare con le tue mani e vedere coi tuoi occhi. Quando noi diciamo che il prezzo di bitcoin sale a salire non è tanto il valore della moneta, quella è una conseguenza, a crescere è il valore della rete; ecco perché in molti sostengono che il prezzo segua l’hashrate, intendono proprio questo. Il prezzo di bitcoin sale perché sale la potenza computazionale espressa dalla rete, il che significa più nodi e macchine più potenti connesse tra loro; qui non è di vere monete che parliamo, ma di un’infrastruttura. Proviamo a fare un esempio, per capirci, ed immaginiamo di possedere un’automobile in un mondo coperto di boschi e di foreste, in cui non esiste neanche una strada: quale sarebbe il valore di quell’automobile? Ovviamente sarebbe zero, perché non potremmo guidarla da nessuna parte, resterebbe ferma in qualche cortile a prendere ruggine. Se però iniziamo a costruire le strade, quell’auto inizia ad acquisire un valore, ed il valore sarà tanto più alto quante più strade ci saranno; allo stesso tempo il valore di quella singola auto inizierà a diminuire nel momento in cui, costruite le strade, invece di esistere una sola auto ne esistesse una seconda, una terza e via dicendo (è l’effetto scarsità che viene a mancare).
Ritornando a bitcoin le prime monete estratte da satoshi valevano praticamente zero, perché la rete si componeva di soli due computer; tutti noi celebriamo ancora oggi il “pizza day”, per ricordarci del giorno in cui per comprare una pizza furono necessari 10mila bitcoin, oggi con quella somma ci potresti comprare una decina di condomini (stiamo parlando di più di 70mln di euro). Che cosa è cambiato in tutto questo tempo? La supply circolante è aumentata, ma il numero di persone che usano la rete è aumentato ancora di più e la rete stessa è cresciuta a dismisura, basta guardare un grafico con l’andamento dell’hashrate per capirlo immediatamente. Quindi di cosa stiamo parlando realmente quando parliamo di bitcoin? Di monete o di infrastruttura? Che cosa controllano i miners (quelli che in troppi definiscono in maniera impropria “i privati”), le monete? No, i miners non controllano le monete, controllano la rete su cui quelle monete vengono spostate. E chi è che decide chi può diventare miners e chi no? Nessuno! Nessuno può impedire a qualcuno di partecipare alla rete e questo implica chiaramente che la natura della rete non è privata ma pubblica, o, per meglio dire, collettiva.
Le monete (o meglio, i pacchetti di dati che rappresentano idealmente le monete) appartengono a chi ne detiene le chiavi privati e a nessun altro; nessuno può controllare quel pacchetto di dati (o monete che dir si voglia) senza possederne la chiave privata. Quindi, tirando le somme, che cos’è bitcoin? Una moneta? Denaro? Denaro privato? No, nessuna di queste cose, bitcoin è un’infrastruttura che permette di spostare dati velocemente da una parte all’altra del mondo a costi sostanzialmente irrisori; che poi quasi sempre quei dati, quelle informazioni, che sulla rete vengono fatti viaggiare abbiano una natura economica è solo incidentale, su quella stessa rete può viaggiare in realtà qualunque tipo di informazione, da un banale messaggio a una cartella clinica.
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