Bitcoin: aumenta sempre più il caos in Israele per il pagamento delle tasse

La situazione era già nota tra gli appassionati di criptovalute che hanno l’abitudine di tenersi aggiornati sull’evolversi della situazione a livello normativo sullo scenario internazionale, lascia comunque sempre molto straniti parlarne dato che siamo di fronte a uno scenario realmente kafkiano.

Aumenta il caos in Israele a causa del Bitcoin

Ce ne occupiamo oggi, dopo diverso tempo, dal momento che cointelegraph ha riservato al tema un lungo approfondimento in occasione di un articolo sul quotidiano locale Haaretz pubblicato in data odierna; come reso noto dal quotidiano israeliano, infatti, i cittadini che hanno acquistato bitcoin si trovano costretti a misurarsi con la reticenza delle banche che rifiutano di accettare trasferimenti di denaro dai principali exchange, accampando preoccupazioni di varia natura sul rischio di riciclaggio e finanziamento del terrorismo, con la conseguenza che i contribuenti che hanno dichiarato le loro plusvalenze al fisco si ritrovano adesso impossibilitati a pagare le tasse. L’altra cosa che suscita una certa ilarità è che, nonostante bitcoin non sia riconosciuto come una valuta in Israele, i trader di criptovalute sono tenuti comunque a pagare il 25% di tasse sulle plusvalenze se persone fisiche e addirittura il 47% se soggetti corporate; lo stato, quindi, non riconosce bitcoin come una valuta, ma pretende di tassarla, al contempo le banche rifiutano di accettare il trasferimento dei profitti sui conti personali dei trader, i quali trovandosi impossibilitati a pagare le tasse rischiano, concretamente, di vedersi pignorare conti e proprietà.

Intervistato proprio da cointelegraph un bitcoiners israeliano, Ross Gross, che ha iniziato a investire nella moneta inventata da Satoshi nel lontano 2011, ha voluto raccontare la sua esperienza; due anni fa, nel 2017, inizia il suo calvario con Hapoalim, la sua banca, che rifiuta il deposito dei profitti realizzati dal trading di bitcoin. Nonostante tutti gli sforzi di Gross per dimostrare che quei profitti fossero leciti la banca, testardamente, ha continuato a mettersi di traverso e a non sentire ragioni, obbligando il malcapitato ad iniziare una vera e propria odissea tra i vari istituti bancari presenti nel paese per scoprire però, amaramente, di incontrare con tutti le medesime difficoltà.

Secondo Gross, in pratica, quello che succede è che le banche, tutte le banche israeliane, al solo sentir pronunciare la parola Bitcoin si congelano e smettono di ragionare; leggendo l’articolo pubblicato da cointelegraph, in compenso, sembrerebbe che le autorità fiscali israeliane sarebbero al corrente del problema e, secondo quanto riferiscono alcuni trader, tenderebbero a mostrare un minimo di comprensione. In merito a questo, però, le notizie che si possono raccogliere online sono abbastanza controverse; alcuni utenti riferiscono che le autorità israeliane avrebbero semplicemente risposto che la cosa non è un loro problema, altri denunciano di essersi trovati casa, mezzo di trasporto e conto bancario sottoposti a sequestro preventivo dalle autorità proprio per il mancato pagamento delle tasse (in ogni caso correttamente denunciate), mentre altri ancora (come Roy Arav) riferiscono che, a seguito dell’avvio di una causa legale, le autorità avrebbero mostrato la propria disponibilità ad attendere l’esito del processo prima di agire in qualunque modo.

La situazione, quindi, almeno per quanto riguarda le conseguenze a cui, individualmente, ogni singolo trader si trova a far fronte possono essere molto soggettive, dipenderà probabilmente dalla città e dall’ufficio di competenza che si ritrova a gestire la pratica, in ogni caso la cosa sta diventando un problema; secondo quanto riferisce Haaretz in ballo ci sarebbero la bellezza di 85mln di dollari di tasse dovute sulle plusvalenze bitcoin correttamente denunciate ma mai regolarmente saldate. Il paradosso più grande è proprio questo, tutte le persone che si ritrovano coinvolte in questa situazione non sono evasori, sono persone che hanno dichiarato diligentemente al fisco i propri profitti bitcoin e che vorrebbero altrettanto diligentemente pagare le tasse dovute su quei profitti ma che si ritrovano impossibilitati a farlo a causa di un comportamento delle banche del paese che già due differenti sentenze hanno dichiarato illegittimo. Si, perché a rendere tutta questa storia ancora più ridicola c’è proprio il fatto che, comprensibilmente, molti cittadini israeliani, vedendosi impossibilitati a depositare il loro denaro, hanno deciso di portare le rispettive banche in tribunale e le sentenze, in almeno due casi, sono già passate in giudicato e riconoscono pienamente, in entrambi i casi, le ragioni dei trader israeliani condannando invece le banche per i loro comportamenti.

Nonostante questo le banche si ostinano a reiterare un comportamento che già due diversi giudici hanno sentenziato non essere conforme alla legge del paese, evidentemente perché l’interesse di prevenire la diffusione di bitcoin è superiore a quello di qualunque multa le autorità dovessero mai decidere di elevare, ammesso mai che una multa venga mai elevata per sanzionare questo tipo di comportamenti. Ovviamente esistono diversi metodi per aggirare il problema, tra cui alcuni non esattamente consigliabili (come ad esempio lo scambio in contanti sul mercato locale, col rischio a quel punto veramente di favorire il riciclaggio) ed altri semplicemente onerosi (a causa delle alte commissioni), questo però non significa che il comportamento delle banche sia giustificato; certo, si potrebbe obiettare che una persona potrebbe intanto farsi carico della maggiorazione di costi però pagare comunque il dovuto all’erario, mentre magari porta avanti contemporaneamente la battaglia legale contro il proprio istituto di credito, ma d’altro canto ragionare così significa accettare passivamente di subire un abuso, cosa che, mediamente, non rientra nella mentalità del tipico bitcoiners.

Qui, per concludere, appare quindi chiaro che la questione non è solo di regolamentare il settore; istituire un quadro normativo ad hoc per l’industria blockchain, infatti, diventa completamente inutile se poi le autorità non si premurano di impedire alle banche di fare cartello contro la diffusione di bitcoin come mezzo di pagamento.

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