Uno dei casi d’uso più interessanti della tecnologia blockchain è quello che permette di tracciare la filiera produttiva e le fonti di approvvigionamento; gli entusiasti di questa tecnologia non perdono occasione per rimarcare come la diffusione dei sistemi blockchain permetterebbe di contrastare fenomeni come il lavoro minorile e lo sfruttamento, permettendo al contempo al consumatore finale di avere ampie garanzie sulla qualità dei prodotti usati. Questo è vero sulla carta ma, come in Italia ha fatto più volte notare il professor Ferdinando Ametrano dell’università degli studi di Milano Bicocca, non tiene conto delle difficoltà e delle problematiche a livello tecnico. Nella giornata di ieri, Craig Heraghty, leader nel settore agroalimentare presso il revisore dei conti “Big Four” PwC, in un’intervista pubblicata dall’edizione asiatica di Tech Wire, è ritornato su questo punto facendo presente che il problema non è la tecnologia in se ma il metodo attraverso cui vengono raccolti e inseriti i dati. Più nello specifico Heraghty ha messo il dito nella piaga spiegando che, quando riflettiamo su questi casi d’uso, dobbiamo sforzarci di ragionare come un truffatore; il truffatore, quindi, tenderà sempre ad alterare le etichette e i QrCode tentando di certificare qualcosa che in realtà è falso. La blockchain, quindi, finisce col generare l’illusione della tracciabilità nei consumatori, i quali tenderanno inevitabilmente a fidarsi delle informazioni ricavate per mezzo di un QrCode senza arrivare a capire che tali informazioni, anche se archiviate su blockchain, potrebbero essere state comunque manipolate nella fase precedente all’archiviazione; si genererebbe, in pratica, un fenomeno simile a quello che alimenta le fake news, in cui la gente finisce per credere acriticamente a ciò che legge senza mai partire dal presupposto di doverlo comunque e sempre mettere in discussione e verificarne l’attendibilità. In pratica i dati condivisi via blockchain sono a prova di manomissione solo dopo che sono stati archiviati sulla catena di blocchi, mentre nel passaggio precedente, quello della raccolta e dell’inserimento dei dati, restano facilmente manipolabili. Chiaramente le aziende della distribuzione e i produttori hanno tutto l’interesse a dare vita a un sistema di certificazione che garantisca i consumatori finali, tuttavia tale l’implementazione di sistemi di certificazione blockchain non può ridursi a mero strumento di marketing, come invece sta accadendo, ma deve avere come fine ultimo quello di creare un sistema realmente capace di tracciare la filiera produttiva in tutti i suoi passaggi, cosa che attualmente, come detto, non è ancora possibile. Non basta, in altre parole, archiviare i dati su blockchain per certificare la filiera produttiva ma bisogna porsi il problema di come i dati vengano raccolti per prevenire le truffe alla radice.
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