Mentre tutti i media mainstream, osteggiando una deprimente ottusità, si ostinavano a sposare la tesi della catastrofe ambientale provocata dal mining bitcoin la comunità delle criptovalute tentava di spiegare, altrettanto ostinatamente, che le cose non stavano affatto così; anche noi di ValuteVirtuali ce ne siamo occupati in decine di articoli, non perché intendessimo fare una difesa di parte del mining, ma semplicemente perché le notizie diffuse a mezzo stampa erano palesemente false. La comunità è perfettamente consapevole di quali siano i limiti delle reti blockchain decentralizzate e sta lavorando per superarli, ma non è comunque disposta a tollerare che i media si inventino di sana pianta determinati difetti di queste reti solo per fare terrorismo. Con un rapporto pubblicato circa una settimana fa The New Scientist, settimanale di divulgazione scientifica pubblicato in lingua inglese dal 1956, ha finalmente contribuito con la sua autorevolezza a screditare la vulgata, ampiamente diffusa a mezzo stampa, che bitcoin sia incompatibile con la lotta al cambiamento climatico. Lo studio, prodotto da Susanne Köhler e Massimo Pizzol dell’Università di Aalborg in Danimarca ha demistificato le ipotesi secondo cui il consumo di energia di Bitcoin potrebbe arrivare a 63 megatonnellate di CO2 all’anno e lo ha fatto usando proprio gli stessi argomenti che anche noi di ValuteVirtuali abbiamo usato negli ultimi anni; i ricercatori, infatti, sostengono che le stime catastrofiche siano il risultato di una premessa falsa e cioè che le emissioni di carbonio derivanti dalla produzione di elettricità siano uniformi in tutta la Cina, paese in cui si concentra il grosso della potenza di calcolo espressa dalla rete bitcoin.
I ricercatori hanno quindi dimostrato come il mining di bitcoin sia distribuito prevalentemente nelle aree della Cina che sfruttano energia idroelettrica, mentre in quelle dove l’energia è prodotta prevalentemente dal carbone, come ad esempio la Mongolia, si concentra appena il 12% dell’hash rate. In pratica rispetto alle stime che sono state fatte circolare dai media l’impronta di carbonio è pari ad appena il 25% di quanto stimato, cioè sostanzialmente le cifre fatte circolare sono gonfiate per ¾. La ricercatrice Susanne Köhler ha quindi dichiarato che è comunque necessario monitorare il consumo di elettricità della rete, ma non bisogna cedere all’allarmismo e al terrorismo mediatico che, negli ultimi mesi, è arrivato addirittura a sostenere che l’accordo di Parigi sul clima non potrà essere rispettato a causa del mining bitcoin. Quanto pubblicato su The New Scientist è quindi perfettamente sovrapponibile ai vari report, di cui pure ci siamo occupati in passato, che certificano come circa il 75% dell’energia usata per minare bitcoin sia riconducibile a fonti rinnovabili, energia che il catastrofismo mediatico aveva invece ipotizzato, in maniera del tutto arbitraria, fosse prodotta da centrali a carbone. Come abbiamo già avuto modo di spiegare, poi, quella di usare energie rinnovabili è una tendenza crescente, per cui è possibile immaginare un futuro in cui il 100% del mining bitcoin proverrà da fonti rinnovabili e questo non perché i miners siano sensibili al tema ambientale ma semplicemente perché questo è il modo più remunerativo per minare bitcoin. Alla luce di quanto fin qui detto, quindi, se c’è un rischio di catastrofe ambientale questo è rappresentato dal sistema economico-finanziario attuale, i cui server, data center, uffici, filiali, grandi grattaceli, etc, non usano che in minima parte fonti rinnovabili per funzionare; smantellando tutto questo apparato che, oltre che inquinamento, produce solo iniquità e povertà, ne trarremmo benefici tutti, non solo l’ambiente ma anche le persone. Ecco spiegato perché sempre più persone nel mondo sostengono ed usano bitcoin.
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