Si, minare criptovalute è un’attività assolutamente legale, per cui inutile stare qui a tirarla per le lunghe, non è questo l’aspetto realmente rilevante del discorso; il problema, invece, è definire come questo tipo di attività vada considerata ai fini fiscali.
Minare criptovalute è legale?
Impossibile, infatti, aprire una partita IVA per svolgere questo tipo di attività dal momento che non esiste, allo stato attuale, un codice ATECO per il mining. Lo stesso problema c’è in linea di massima quasi in ogni parte del mondo, di conseguenza minare criptovalute non può essere intesa come un’attività lavorativa; questo non significa però che non ponga alcuni problemi a livello fiscale.
Nella normativa italiana le criptovalute sono equiparate a valuta estera, non è questa la sede opportuna per definire se questa decisione sia corretta o meno, è stato deciso così e bisogna adeguarcisi; di conseguenza la detenzione di valuta estera fino a un massimo di 51.645,69€ non è necessario che venga dichiarata.
Chi mina criptovaluta, però, soprattutto se decide di investire in questa attività, può riuscire facilmente ad accumulare un importo simile, in questo caso sarebbe tenuto a comunicarlo; il motivo per cui uso il condizionale è che nel nostro paese quasi nessuno lo fa, non perché ci sia una reale e precisa volontà di evadere il fisco (come qualcuno si ostina a sostenere) ma perché il quadro normativo non è chiaro e questo incentiva quasi tutti ad omettere (colpevolmente, lo ribadisco) il possesso di criptovaluta in sede di dichiarazione dei redditi.
A questo va aggiunto che mancano nel nostro paese professionisti capaci di supportare i cittadini in questo genere di dichiarazioni, provate ad entrare in qualunque CAF o nello studio di un commercialista usando la parola “bitcoin” e noterete che inizieranno a fissarvi come un cervo fissa gli abbaglianti di un auto quando si trova nel bel mezzo della carreggiata su una strada statale.
Quindi come si fa? Normalmente vengono dichiarati solo gli importi che vengono cambiati in valuta FIAT, quando un miner, ad esempio, decide di vendere 2BTC, in sede di dichiarazione dei redditi dichiara quell’importo come se fosse profitto da trading, pagando quindi un’aliquota secca che (se le cose non sono cambiate ancora dall’ultima volta che ho controllato) dovrebbe ammontare intorno al 21%.
Ricapitolando, quindi, l’attività di mining in Italia (ma anche nel resto del mondo) è perfettamente legale, i vuoti normativi che però, purtroppo, caratterizzano la larga parte degli ordinamenti dei vari paesi impediscono di gestire quest’attività al pari di quanto avviene per qualunque altra azienda; in un contesto di questo tipo gli utenti sono sostanzialmente incentivati a non dichiarare nulla.
Nonostante questo il grosso degli appassionati di criptovalute provvede prontamente a dichiarare i profitti al momento del cambio da criptovaluta a valuta fiat, pagando un’aliquota secca del 21% come se si trattasse di normali operazioni fatte sul mercato del forex, questo ovviamente quando si tratta di importi di una certa rilevanza, perché per cambiare 200€ (per fare un esempio di una cifra modesta) non ha praticamente senso farsi carico della ricerca di un professionista che sappia come indirizzarci in sede di dichiarazione dei redditi (anche perché quei pochi che ci sono si fanno pagare profumatamente).
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