I limiti delle criptovalute e di bitcoin emergono durante le proteste che recentemente stanno esplodendo in tutto il mondo

Nella giornata di ieri CoinDesk ha pubblicato un interessante articolo a firma dell’ottima Leigh Cuen (seguitela sui social perché è veramente una delle firme più interessanti nel mondo delle criptovalute) che, partendo dalle proteste che stanno infiammando mezzo mondo dall’America Latina ad Hong Kong, passando dall’Iran, giunge ad analizzare alcuni dei principali limiti del mondo delle criptovalute e di bitcoin. Proprio le proteste in corso ad Hong Kong, scrive la Cuen, rappresentano un ottimo banco di prova di come bitcoin dovrebbe funzionare dal momento che si propone di essere incensurabile; le autorità cinesi, infatti, stanno tentando di reprimere le proteste in vari modi, non solo attraverso l’azione delle forze di polizia ma anche, ad esempio, chiudendo i conti bancari di alcuni personaggi di spicco tra i manifestanti. La Cuen cita il caso di un’organizzazione no profit (la Spark Alliance HK) la quale già da tempo accetta donazioni dall’estero in BTC tuttavia, essendo stato bloccato internet nell’area delle proteste, le persone non riescono a sfruttare pienamente le potenzialità di bitcoin. Diverse fonti locali, intervistate dalla Cuen previa richiesta di anonimato (per ovvi motivi), hanno riferito che i manifestanti hanno provato ad usare sistemi Mesh (di cui ci siamo già occupati in passato e che sostanzialmente fanno rimbalzare le transazioni tra vari dispositivi alla ricerca di un accesso internet), rivelando come tali sistemi si siano rivelati inefficaci in un contesto di conflittualità. I sistemi Mesh, in altre parole, funzionano benissimo in presenza di blackout dovuti a eventi naturali ma si rivelano poco utili in uno scenario di guerriglia urbana. La tecnologia blockchain, quindi, sembra essere ancora troppo di nicchia per poter essere usata in maniera efficace nell’ambito di grandi e diffuse proteste, quando i governi decidono di spegnere internet viene a cadere l’effetto rete e questo rende bitcoin praticamente inutile.

(Photo by PHILIP FONG/AFP via Getty Images)

La cosa è risultata ancora più evidente in altre zone animate da proteste ugualmente violente, come ad esempio l’Iran; la Cuen è riuscita a mettersi in contatto con alcuni bitcoiners di Teheran (i quali anche loro preferiscono rimanere anonimi) che riferiscono come la polizia, nel momento in cui procede all’arresto di qualche manifestante, procede al sequestro dello smartphone e ne analizza il contenuto, di conseguenza molti bitcoiners nel paese stanno preferendo tenere un profilo basso per evitare di avere problemi di sorta. La stessa persona, dotata di ottime skills informatiche, è riuscita comunque a garantirsi l’accesso a internet durante le proteste, sfruttando un server all’estero, ma riferisce di avere gran parte delle applicazioni come telegram e wallet bitcoin ancora bloccate. Anche l’appoggio alla rete satellitare sembra aver fatto cilecca, la stessa fonte riferisce che questi sistemi non funzionano e sono inaffidabili quando le autorità spengono l’accesso a internet. La situazione, però, non è più semplice anche laddove l’accesso alla rete non è bloccato; la Cuen è infatti riuscita a mettersi in contatto con alcuni bitcoiners libanesi che riferiscono come nonostante nel paese sia ancora possibile scambiare criptovalute usando le app di messaggistica per effettuare scambi locali il trading è comunque limitato a causa della scarsa circolazione del contante. Le autorità, come noi stessi abbiamo riferito qualche settimana fa, hanno infatti bloccato l’accesso ai conti bancari e, anche se adesso il blocco è cessato resta comunque una limitazione sui prelievi di contante; in pratica la mancanza di liquidità pone problemi simili al mancato accesso a internet. Inoltre alcuni bitcoiners libanesi riferiscono di aver subito attacchi informatici ai loro dispositivi verificatisi proprio mentre tentavano di fare degli scambi anonimi; l’impossibilità di sapere preventivamente con chi si stanno scambiando le proprie monete mette a rischio la stessa sicurezza dei wallet e, di conseguenza, non esistono alternative alle relazioni già consolidate, bisogna scambiare all’interno della cerchia di persone che si conoscono già e della cui affidabilità si può essere certi, in caso contrario ci si espone a grossi rischi. Leggendo l’articolo della Cuen, quindi, la conclusione che inevitabilmente se ne trae è che la comunità è ancora troppo piccola e frammentata per cui nel momento in cui si vengono a creare situazioni conflittuali in un paese l’unica utilità che bitcoin è attualmente in grado di offrire riguarda la possibilità di ricevere donazioni dall’estero, tuttavia quel denaro poi non è ne spendibile ne utilizzabile a livello locale; il grosso delle persone comuni, poi, non ha la minima idea di come funzioni bitcoin, per cui nel momento in cui viene a cadere la dimensione globale della rete diventa impossibile gestire gli scambi e, dato che a livello locale quasi nessuno accetta direttamente bitcoin come forma di pagamento, i fondi non possono essere utilizzati per effettuare alcun tipo di transazione. La Cuen ha fatto veramente un lavoro fantastico in questo suo articolo, non solo perché è riuscita a mettersi in contatto con persone che sono quasi impossibili da contattare (soprattutto per quel che riguarda l’Iran) ma perché è stata l’unica giornalista, nel mondo delle criptovalute, a capire che quanto sta accadendo meritava di essere raccontato andando oltre la mera cronaca degli scontri ma sforzandosi di identificare i limiti di questa tecnologia in scenari di guerriglia urbana. Tutto questo, però, non significa che bitcoin sia inutile o che si debba rinunciare alla moneta decentralizzata viste le difficoltà emerse, ma ci serve a capire quanto ancora lunga sia la strada da fare per l’adozione di massa e come questa sia fondamentale per il successo di bitcoin e il funzionamento stesso della rete.

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