Criptovalute: i trader nel mirino del fisco americano

Ricevere una lettera dell’IRS, l’internal revenue service degli USA (in pratica l’equivalente della nostra agenzia delle entrate), non deve essere certamente una bella esperienza, se poi consideriamo che a riceverla sono stati i trader di criptovalute, che si sono visti intimati a dichiarare correttamente i propri profitti onde evitare indagini e guai superiori, ecco che immaginiamo facilmente come ai malcapitati di turno debba essere venuto giù il classico rivolo di sudore freddo sulla fronte.

Trader nel mirino del fisco americano

A riferirlo è un articolo pubblicato oggi su Forbes, che riporta le parole di Tyson Cross, il quale dichiara che alcuni suoi clienti hanno ricevuto una lettera (procollata 6174-A) con cui l’IRS li avrebbe minacciati di ulteriori indagini in caso di mancata collaborazione. Come recita un vecchio adagio, quindi, tutto il mondo è paese, per cui le autorità americane si comportano come quelle italiane; i nominativi che hanno ricevuto la lettera, infatti, sarebbero gli stessi che l’IRS avrebbe identificato attraverso coinbase, inoltre molti dei contribuenti che l’hanno ricevuta hanno anche già pagato con la massima accuratezza quanto dovuto al fisco, di conseguenza sembra che l’IRS abbia voluto fare un’operazione di terrorismo psicologico preventivo sui nominativi a sua disposizione.

Nel 2017, infatti, l’IRS tentò di ottenere da Coinbase l’elenco completo e dettagliato con le informazioni sui 500.000 utenti della piattaforma nel tentativo di prevenire l’evasione fiscale; la cosa finì in tribunale, inevitabilmente, dove però il giudice giustificò i controlli preventivi su meno dell’1% degli utenti (appena 13000 soggetti), quelli cioè con i conti maggiormente movimentati. Adesso proprio quei 13000 utenti si sarebbero visti recapitare questa lettera dall’IRS, nonostante siano certi di aver pagato tutto quanto dovuto al fisco; diciamocela tutta, non è che l’IRS abbia tutti i torti a comportarsi così, secondo tutti i sondaggi, infatti, meno dello 0.1% dei trader di criptovalute dichiara le proprie entrate al fisco, di conseguenza è comprensibile che si sia tentato di incentivare i contribuenti a pagare il dovuto con una sorta di ravvedimento operoso (come lo chiameremmo in Italia).

Certo è che questo modo di comportarsi non è esattamente il massimo della vita in termini di correttezza, anche perché una persona quando trova una lettera dell’IRS nella cassetta della posta, per quanto possa avere la coscienza pulita, passa inevitabilmente un brutto quarto d’ora; la cosa che lascia seriamente esterrefatti è che nel 2019 il fisco USA (ma è comune a quasi tutti i paesi) deve ridursi a questi mezzucci per il pagamento delle tasse, quando basterebbe usare la tecnologia blockchain invece che limitarsi a tassarne le applicazioni. Il bello di una moneta crittografica è che permette, ad esempio, di scrivere un contratto che regola immediatamente il pagamento dell’iva ad ogni transazione, giusto per fare un esempio, in più diventa molto più semplice attestare i propri redditi e, conseguentemente, saldare il fisco; non si capisce, per concludere, quale sia la necessità di andare avanti come abbiamo fatto fino ad oggi quando attraverso la tecnologia blockchain possiamo finalmente sburocratizzare e automatizzare vasta parte della pubblica amministrazione a partire proprio dal sistema fiscale.

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