La Corea del Sud valuta la possibilità di tassare le criptovalute con un aliquota fissa del 20%

A riferirlo è il sito di news The Korea Times, con un articolo pubblicato oggi; stando a quanto riporta l’organo di informazione locale in lingua inglese, quindi, il Ministero dell’Economia e delle Finanze della Corea del Sud sta valutando la possibilità di imporre una tassa del 20% sul reddito derivante dal trading di criptovalute. La fonte citata da The Korea Times è però anonima quindi la notizia va presa con le pinze, fatto sta che se le cose stessero effettivamente così l’agenzia delle entrate sudcoreana avrebbe iniziato a studiare, su mandato del ministero, una tassazione che andrebbe a colpire le plusvalenze realizzate col trading di criptovalute; questo genere di voci si susseguono ormai dall’inizio dell’anno e sinceramente non stupisce che un paese come la Corea del Sud, che già si è dotata di un quadro normativo tra i più avanzati al mondo per quel che riguarda il mercato delle criptovalute, possa introdurre adesso una qualche forma di tassazione sulle plusvalenze frutto della negoziazione degli asset crittografici. A differenza di quanto accade in Italia, e in Europa, dove ci si è limitati ad equiparare il trading di criptovalute al forex senza però predisporre un quadro normativo adeguato, la Corea del Sud, più seriamente, ha prima predisposto tale quadro normativo e adesso, sempre ammesso che i rumors si rivelino veri, starebbe prendendo in seria considerazione la possibilità di tassare gli investimenti in questa classe di attività.

Fino ad oggi, infatti, il governo si era limitato a tassare direttamente gli exchange, col risultato che il principale scambio di criptovalute a livello locale, Bithumb, ha annunciato la propria intenzione di avviare un contenzioso amministrativo a fronte della richiesta di versare 68,9mln di dollari al fisco sudcoreano, cosa che però l’exchange ritiene non abbia una base legale; in qualunque modo evolva la questione penso che introdurre una forma di tassazione sul trading di criptovalute sia corretto e necessario, ma solo a patto che ci sia chiarezza normativa. E’ quindi, in altre parole, più che lecito che paesi come la Corea del Sud o il Giappone, ma anche gli stessi Stati Uniti, richiedano il pagamento di tasse sulle plusvalenze realizzate operando con le cripto, ma solo perché tali paesi si sono premuniti di mettere gli operatori in condizioni di farlo; se guardiamo, invece, alla situazione italiana, dove pure è prevista una tassazione sulle plusvalenze realizzate, quello che vediamo è che il fisco italiano da un lato pretende il pagamento di una tassa identica a quella applicata al forex (26% sulle plusvalenze) dall’altro, però, rigetta qualunque documento i trader di criptovalute presentino per attestare tali plusvalenze. Dal momento che i principali exchange non forniscono un estratto conto annuale delle operazioni eseguite, quindi, è che l’agenzia delle entrate non si accontenta che il contribuente stampi lo storico delle proprie operazioni dalla piattaforma, considerando non valido questo genere di documento, il contribuente italiano si trova sempre e comunque impossibilitato a dimostrare la provenienza dei propri fondi e, in caso di contestazioni, avrà sempre e comunque torto col rischio, per di più, di vedersi affibbiato un capo d’imputazione per riciclaggio come del resto già avvenuto ad alcune persone. Il problema, ovviamente, si pone solo per chi movimenti volumi di denaro importanti, non si rischia certo un’accusa di riciclaggio per qualche centinaio di euro, tuttavia è inaccettabile che i governi avanzino pretese di sorta verso chi opera con le criptovalute se prima non fanno il loro lavoro, che è appunto quello di regolamentare in maniera chiara il settore.

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