Le istituzioni di Hong Kong fanno il punto sulla normativa che regola il mining

Il segretario dei servizi finanziari e del tesoro del paese mette in chiaro che l’attività di estrazione mineraria risponde agli stessi regolamenti che normano qualunque altra attività commerciale all’interno del paese. Lo fa in risposta al sollecito avanzato dal Consiglio legislativo di Hong Kong in cui si chiedono chiarimenti sui rischi connessi alle attività che afferiscono all’ecosistema delle criptovalute, con una lettera pubblicata in data 3 aprile; in particolare, per quel che riguarda il mining, il consiglio chiede se tale attività risulta soggetta alla regolamentazione che, con una legge approvata nel 2012, prescrive sanzioni per pratiche commerciali sleali effettuate nel paese. La risposta non lascia spazio a dubbi di sorta, il segretario James Lau ha infatti confermato che la vendita di attrezzature minerarie, così come quella di qualunque altro prodotto correlato alle criptovalute o altri beni di natura “virtuale”, è pienamente regolamentata dall’ordinanza sulle descrizioni delle negoziazioni; tale legge (TDO, acronimo di “Trade Descriptions Ordinance”) punisce ogni tipo di pratica commerciale scorretta incluse false descrizioni, omissioni fuorvianti e pratiche aggressive. Secondo quanto previsto da questo tipo di regolamento le pene previste per chi infrange il TDO prevedono multe a partire dal mezzo milione di dollari e la reclusione fino a cinque anni. Sulla base di questo stesso regolamento, infatti, alla fine del 2018 aveva già fatto scalpore l’arresto di un imprenditore (Wong Ching) appena venticinquenne e di uno dei suoi principali soci (appena vent’anni) che, secondo quanto riferiscono le fonti, sarebbero stati condannati a una multa di poco inferiore ai 400mila dollari per aver frodato una ventina di investitori attraverso la vendita di hardware minerario. Sembra inoltre che i due (così come riportato da cointelegraph) sarebbero stati arrestati, non è stato possibile però risalire alla durata della pena inflitta su nessuna delle fonti che riportano il fatto (probabilmente perché il processo è ancora in corso). Questa notizia è interessante perché dimostra da un lato quanto l’ecosistema delle criptovalute sia maturato rispetto anche solo a qualche anno fa, quando truffare gli investitori era un’operazione abbastanza sicura da fare, dal momento che difficilmente si sarebbe mai rischiato di subirne concretamente le conseguenze, dall’altro perché manda a farsi benedire tutta la retorica sul presunto far west delle criptovalute; come infatti abbiamo visto in diversi altri articoli, e come anche questa notizia dimostra, nonostante quasi tutti i paesi europei siano ancora in alto mare per quel che riguarda la regolamentazione dei mercati delle criptovalute questo non implica che lo stesso problema ci sia anche nel resto del mondo. Il problema è che i paesi europei si sono ormai abituati ad attendere che sia l’UE a fornire le direttive per certi tipi di leggi, che poi i singoli parlamenti nazionali si limiteranno a recepire; questo modo di operare, però, finisce con l’essere drammaticamente lento, e non implica in alcun modo che anche il resto del mondo trovi opportuno procedere col freno a mano tirato. La verità è un’altra, e cioè che i paesi che più hanno investito sulla tecnologia blockchain e sulle valute virtuali si sono già dotati di una normativa per regolamentarle, mentre l’Europa resta alla finestra e non sembra nemmeno aver capito cosa le succede intorno.

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